Estate 2015: per non dimenticare

Rientrata da poco alla base ho tanti pensieri per la testa, tante cose di cui potrei scrivere e raccontare qui su questo blog dove da troppo tempo manco in maniera continuativa.

Tante immagini si sovrappongono nella mia mente: quasi un mese intero a girare per le isole della Grecia in barca a vela con la mia famiglia e in compagnia di amici vecchi e nuovi.
Esperienze, panorami, volti e sapori, tutto sempre perfetto: il clima, il mare, i ritmi lenti ma mai vuoti, un vagabondare di sponda in sponda per nutrirsi di quella bellezza e armonia che solo la natura sa avere.
Il mediterraneo, il nostro bellissimo mare, e lo spirito leggero e accogliente dei greci.

Ma come sempre anche le cose belle hanno un loro lato oscuro, altrettanto forte e in grado di precipitarti nel baratro della paura, dell’angoscia e dell’orrore.

Mentre noi solcavamo i mari belli comodi sulle nostre barche, col tendalino per ripararci dal sole, una bibita sempre fresca in frigo, un bel frutto da mordere ai primi accenni di fame, null’altro a cui pensare se non la crema solare, gli stessi mari, a volte le stesse tratte, venivano percorse da gommoni enormi carichi di uomini, donne, bambini.

Centinaia di profughi, con la vita intera contenuta in uno zainetto, a volte in una tasca o addirittura in un cellulare nella speranza che il mare non lo danneggi. Tutte le persone che quest’estate hanno girato per le isole del Dodecaneso, le più vicine alla Turchia, sanno di cosa parlo: enormi gommoni mezzi sgonfi incrociati in mezzo al mare, perché la tecnica è questa: chi guida il gommone ha un coltellaccio con cui fa affondare il mezzo, talvolta rischiando di ferirsi e poi si mescola insieme ai profughi e con loro continua quella fuga disperata e pagata a caro prezzo per un biglietto che la terza classe dei nostri avi era una crociera di lusso.  Motori e giubbotti subito rubati, perché gli sciacalli non mancano mai.

Grazie al cielo li abbiamo visti tutti vivi, stanchi e ammassati sulle banchine dei porti delle isole più vicine alla Turchia, ma vivi.
Per loro nessun diritto di farsi un bagno in mare, perché le isole vivono di turismo e quelle presenze poco decorose rischiano di mandare a monte l’unico mese di alta stagione: sono in più di 300 e a disposizione c’è solo il bagno della stazione di polizia dove momentaneamente sono stati parcheggiati in attesa della nave speciale che di notte, al buio, li porti via, lontano dagli occhi, lontani dal cuore.

profughi

Ma è troppo facile  giudicare il negoziante che non fa usare il bagno, il bar che nega il wifi, o il fruttivendolo che tiene la frutta e verdura per i turisti che devono fare cambusa.
Perché in tutto questo gran casino la vera verità è che là, nelle isole della Grecia, nessuno è pronto e organizzato a gestire questa emergenza umanitaria.

Il turista per primo è spiazzato: ogni piccolo gesto di aiuto o conforto è benvenuto ma qualunque esso sia non è che una goccia nell’oceano di bisogni di chi è in fuga, senza documenti, senza più una patria, ricco solo di una dignità immensa.

Profughi è la parola che i miei figli hanno imparato in questa estate, e sono ben contenta che abbiano avuto modo di vedere coi loro occhi quanto la vita può essere dura e ingiusta anche per dei bambini come loro.
Perché quando la storia del mondo e dell’umanità ti passa sotto il naso l’unica cosa buona è cercare di fare di tutto il dolore e lo strazio uno strumento di crescita, insegnare loro che quel che è brutto e misero non per forza è cattivo, accogliere e non allontanare perché chi ha di più deve dare di più.

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